Il trionfo dell’incompetenza esercitata per simulazioni d’intenti e proclami

Quando il potere poltronifico mostra l’assenza di un’azione amministrativa


Aprile 2015



In ogni epoca e paese, la politica è sempre lo specchio della società.

Oggi siamo tutti attori-spettatori di uno smarrimento della società sempre più concentrata sul presente e priva di un progetto per il futuro. Mentre in passato il progetto di vita dei nostri padri poggiava sulla speranza di migliorarsi e offrire un maggiore benessere a sé e ai propri cari, oggi la sfiducia nel futuro induce la società a limitare il proprio orizzonte.

Nel tempo sono cambiati i modelli di riferimento, determinando nuove scale di valori non sempre sani. Si preferisce dare enfasi e attenzione al benessere individuale, trascurando la tutela del capitale naturale, non rafforzando il capitale sociale e non valorizzando adeguatamente quello umano. Le conseguenze negative di queste dinamiche non si sono fatte attendere e trovano perfetta rappresentazione nella politica, anche e soprattutto quella della nostra Bagheria.


La Scienza sostiene che la lamentela danneggia i nostri neuroni.

Quante volte al dì sentiamo, ascoltiamo, pronunciamo la parola “crisi” con tono lamentoso?

Decisamente troppo, bisogna ammetterlo. E come non si può definirla fastidiosa? … soprattutto per una generazione, come quella mia, ormai assuefatta da una costante brezza di benessere, vocata al consumismo e miope nei confronti di quelle ricchezze endogene alle quali dobbiamo parecchio.

Parafrasando Albert Einstein, voglio provare a sovvertire l’approccio quotidiano che abbiamo alla parola “crisi”, sostenendo che è la più grande benedizione per un popolo e il suo territorio, poiché essa porta “progresso”. E’ nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. E chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti, violenta il suo stesso talento (semmai ne abbia) e dà più valore ai problemi che alle soluzioni (semmai ne abbia). La vera crisi è quella dell’incompetenza, è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita, dimenticando che senza crisi non ci sono sfide da affrontare e perciò non c’è merito, per nessuno. 


Tornare indietro per andare avanti è possibile, è ciò che bisogna fare, anche a Bagheria.

Tutti sappiamo ormai che Bagheria è un Comune in dissesto, con pesanti ricadute sulla sua intera economia, e i cittadini, convinti (o forse illusi) di aver rottamato il passato, vogliono ricominciare ex novo. Per questo, aldilà degli sterili teatrini di beghe politiche, si chiede al nostro Sindaco e al suo “cerchio magico” di collaboratori dov'è e qual è il progetto della “futura” Bagheria, poiché non si vuole e non si può credere, osservando i risultati fin qui registrasti, che il loro unico “strumento” è un’agenda per simulazioni d’intenti e proclami che riempiono i mass media e i social network.

Come ho più volte pubblicamente sostenuto, il punto di partenza per la ripresa della nostra Bagheria è nel nostro stesso passato: tornare indietro per andare avanti, senza necessariamente ricorrere a capitali esteri che mirano a ricreare a Bagheria l’antico sistema feudale, se non anche peggio.

Si rigetta l’idea, nei mesi già diventata forse più concreta, di realizzare a Bagheria un mega Centro Commerciale: circa 280mila metri quadri di terreno invasi da poche grandi compagnie internazionali, che sono anche le uniche (a dispetto di quanto sostengono i politici ogniqualvolta si tratta di dare avvio all’apertura di un mega centro) ad avere un reale e cospicuo vantaggio da queste colossali operazioni.

Il punto è esattamente questo: a chi conviene deturpare un territorio con mega-strutture di acciaio e cemento, pronte a riversare al suo interno migliaia di tonnellate di prodotti di ogni tipo, ad aumentare di non poco il traffico su ruota e a corrompere l’esistenza di comunità abituate a ritmi più umani di vita e di consumo?

C’è in genere, riconosciamolo pure, una qualche forma di beneficio per alcune centinaia di persone (operai, impiegati, rappresentanti, responsabili di sede, sorveglianti ...) che trovano un’occupazione presso le nuove fabbriche post-moderne. Allo stesso tempo le “cattedrali del consumo” ci consentono di conoscere e far nostre, cose che prima non trovavamo o che avremmo tutt'oggi difficoltà a trovare, alle volte utili, forse gratificanti. E poi ci sono i prezzi, spesso vantaggiosi per chi vive condizioni di sempre maggiore precarietà economica e possiede una limitata capacità d’acquisto.

Ci sono però anche altri importanti fattori - anzi cruciali - da considerare, teorie e studi economici già sperimentati, che ci dimostrano che l’apertura di un Centro Commerciale non è un volano di crescita del territorio ospitante (alias feudo occupato):

A. Le nuove strutture del consumo aggrediscono i mercati locali e le reti tra territorio ed economie urbane e agricole, stravolgendo i ritmi di produzione e la loro stagionalità e creando disoccupazione e de-qualificazione. Non c’è, nell'intera possibile operazione, un solo attore economico locale. A quali di queste macchine capitalistiche può interessare reinvestire parte degli utili a favore della comunità locale?

B. L’insediamento di una mega-struttura commerciale conduce alla costruzione d’immensi parcheggi e all'intensificazione della mobilità su ruota; si creano problemi di sfruttamento, deperimento e inquinamento delle falde acquifere; si assiste a un aumento esponenziale dei rifiuti (come se fossero pochi quelli che abbiamo per strada).

C. Il centro commerciale conduce all'implosione della “socialità” ed è questo l’aspetto meno considerato in assoluto sia dagli attori economici sia dalle Istituzioni locali: lo spazio pubblico è trasferito nelle funzioni del consumo, trasformando l’abitante-cittadino in un semplice soggetto consumatore.

Nonostante la giovane età e la (mai fattivamente dimostrata) competenza tecnico-professionale dei nostri “nuovi” amministratori-politici, sembra che questi sconoscano i principi della Green e della Blue Economy, sembrano ignorare i risultati positivi ricavati dalla valorizzazione e promozione dell’agroalimentare di qualità/tipico/tradizionale (soprattutto quando associato al turismo), sembrano disconoscere anche l’agricoltura e la sua economia, la stessa che ha garantito prosperità alla nostra cittadina per parecchi anni.

Concediamoci qualche passo indietro per proiettarci in avanti, non tuteliamo gli interessi dei poteri forti, non svendiamo il nostro territorio e la nostra storia, non riversiamo sfiducia sulle nostre risorse endogene e aspettiamo con grande interesse e attivismo un’Amministrazione comunale che si riconosca nel concetto di local empowerment, cioè nella possibilità per la comunità bagherese di autogestione delle risorse locali e l’opportunità di definire autonomamente le regole di uso e appropriazione della “proprietà collettiva” (la mia proposta dei “Giardini condivisi” giace ancora chissà in quale cassetto comunale). Da questo è necessario ripartire, è sui “beni comuni” che l’economia dei Paesi più avanzati, dall'ampio orizzonte e competenza, dedica sempre più attenzione. Dalla crisi del modello di sviluppo di matrice liberista, alla crescita delle disuguaglianze su scala planetaria, all'inquinamento del Pianeta, parlare oggi di “beni comuni” significa contribuire alla riflessione sul paradigma dello sviluppo locale.

I “beni comuni”, secondo la definizione data da Elinor Ostrom (la massima teorizzatrice del tema), corrispondono a ogni risorsa, naturale o/e artificiale, sfruttata insieme da più utilizzatori i cui processi di esclusione dall'uso sono difficili e/o costosi. Una loro specifica identificazione è possibile, ma non semplice e una prima classificazione li distingue in beni immateriali - come l’informazione, i saperi, la cultura - e in beni naturali e ambientali - come i prodotti dell’agroalimentare e il terreno agrario.

Sul terreno agrario bagherese, inteso come “bene comune”, già nel 2013 scrissi una possibile e forse interessante applicazione pratica di quanto sopra teorizzato: la community supported agricolture. Una forma di partecipazione comunitaria all'agricoltura in cui il produttore lavora la terra per conto dei consumatori che conosce, che si suddividono i costi aziendali e il rischio di variabilità nei raccolti, ma anche i profitti derivanti da raccolti abbondanti venduti fuori dal circuito. Con la vendita diretta ai membri della comunità, che hanno anticipato il capitale liquido, il produttore agricolo ottiene un prezzo migliore, conta su una maggior sicurezza finanziaria e azzera i rischi connessi a difficoltà di commercializzazione. La comunità col suo sostenere economicamente l’azienda, la trasforma in un’azienda della comunità: con il loro anticipo monetario, che in ogni caso spenderebbero per prodotti da supermercato, i sostenitori coprono i costi di gestione e garantiscono il reddito dell’agricoltore, ottenendo in cambio prodotti con un rapporto qualità-prezzo migliore, la gratificazione di essere parte attiva in una comunità locale coesa, il mantenimento della tradizione e della cultura rurale nel proprio territorio e la propria quota pro-capite del raccolto, realizzato pensando al consumatore e alla qualità dell’ambiente del territorio in cui vive.

Questo è solo un esempio di ciò che la “crisi” può donarci, si pensi all'arte e alla cultura bagherese, al patrimonio agroalimentare mai ricercato e valorizzato ma sicuramente presente … è nella crisi che sorge l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie, non perdiamoci quest’opportunità, scegliamo solo ciò che serve fattivamente (politici inclusi) a costruire un futuro migliore, una nuova Bagheria.




Angelo Puleo

Dottore di Ricerca in Economia e Politica Agraria